21 febbraio 2006

Troppi anni di rabbia (e di morti)


Un corteo di quattro auto, due fuoristrada al centro, un pick-up dietro e uno davanti il convoglio con i miliziani. Complessivamente ventidue uomini armati, anche di cannoncini. In Somalia questa e’ l’unica condizione per sopravvivere. Muhammud, il capo della scorta, mi sussurra: “Forse sono pochi. Domani rinforziamo la scorta. Dobbiamo metterci al sicuro”. Il problema e’ che qui posti sicuri non ce ne sono perche’ chiunque puo’ venderti, rapirti, ucciderti per far soldi o per umiliare la tribu’ che ti protegge.

I cinquanta chilometri dall’aeroporto in citta’ sono pieni di paura. Questo e’ un Paese in guerra, una guerra civile lunga tredici anni, rabbiosa, senza sbocchi. Penso a Palmisano, a Ilaria Alpi (mi dicono di non chiedere: “e’ una storia brutta solo a parlarne” mi spiegano), da allora nessuna troupe e’ piu’ venuta qui. L’unica legge si chiama proprio “legge” che in somalo significa pedaggio. Fanno check-point improvvisi e chiedono soldi per passare in quello che ritengono il loro territorio.
Non c’e’ un governo e neppure una semplice amministrazione. Cinque uomini si autoproclamano presidenti, ma sono almeno dieci quelli che comandano. Senza contare i signori della guerra, che non sono politici ma imprenditori, che certo non vogliono la pace. Fanno troppi soldi con i morti. Per non dire di quelli che li fanno con la disperazione. Una terra con mille problemi: sono rimasti ormai solo odio e rovine.

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