22 febbraio 2006

Il fronte



Il risveglio e’ lento. La doccia lunghissima, interminabile. Riappropriarsi degli odori e dei sapori: l’ultima camicia pulita, un quasi-caffe’. Piccole grandi cose che appartengono alla nostra vita. Sto a Nairobi e mi sento comunque piu’ vicino a casa. Succede sempre cosi’ dopo un’avventura pesante, piena di disagi. Comincio a curarmi le ferite, anche fisiche, con i mosquitos che mi hanno devastato e a pulirmi dalla tanta polvere che mi ha sommerso. Mi accorgo per l’ennesima volta che non e’ la geografia che determina la condizione. Un’ora di volo divide due mondi. La Somalia e il Kenya sono due Afriche. Molto diverse. Il fronte di Mogadiscio e’ lontanissimo dalla Nairobi dei turisti e delle banche. Non che ami quest’Africa, anzi amo sicuramente l’altra, che ha piu’ bisogno di aiuto, ma certo questa e’ piu’ comoda, senza ipocrisie. Vedo dalla finestra la gente che affolla i negozi del centro e ripenso con enorme tristezza agli amici somali che rischiano la vita anche per un pacchetto di sigarette, o per un sorriso, che vivono sepolti vivi, per evitare di essere seppelliti davvero. Partendo, Mohammud mi ha confidato che qualche giorno prima che arrivassi gli hanno sparato addosso venti colpi di kalashnikov. Penso alle sue bambine cosi’ belle che si sarebbero ritrovate orfane. Ma penso anche alle famiglie dei sei miliziani che gli uomini di Mohammud hanno ucciso per salvargli la vita. Non posso non conservare nel cuore quell’Africa, ma qui respiro aria di Natale (altra differenza: da un mondo islamico a uno cristiano). E mi accorgo allora che le differenze non vengono neppure dal colore della pelle. Sono neri, ma i kenioti ragionano con la mia testa. Nonostante i problemi.

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