21 febbraio 2006

La fuga



L’appuntamento e’ in una zona che si chiama Bar Ubah. I pullman, scrostati, vecchi, sono gia’ in fila. A mezzogiorno si parte. Altri partiranno con il secondo turno, nel pomeriggio. Sopra un pullman c’e’ un uomo con un sacchetto e un quaderno. Il sacchetto si riempie di dollari (duemila a persona), sul quaderno c’e’ la lista di quelli che partono oggi. I disperati: giovani, bambini, qualche donna, che si nasconde, per pudore. Guai a fare i nomi. Ma l’organizzatore ci spiega.
“Oggi partono in centocinquanta, come ogni giorno. Attraverseranno Etiopia e Sudan per arrivare in Libia. Quarantacinque giorni di viaggio, terribili, specie quando si attraversa il deserto, molti non ce la fanno. Poi a Tripoli li aspettano quattro, cinque giorni, una settimana di attesa prima di salire sulle barche per l’Italia. Due giorni di mare e arrivano”.
Quando arrivano. C’e’ un ragazzino sul pullman, ha tredici anni. Cosa sai dell’Italia, gli chiedo.
“Non la conosco, ma mi aspetta mia zia. Non so cosa trovero’, non ne ho idea ma sono felice di partire, qui ogni momento si rischia di morire. Mi dicono che da voi sia un posto bellissimo”.
C’e’ un uomo con i capelli bianchi. Si presenta. Abdirrahman Hamed, a Mogadiscio fa il professore. Ha una faccia pulita, onesta. "Che senso ha vivere qui? Il mio sogno è vivere in Italia. O ci riesco o muoio, per strada. Ma almeno ho sognato".

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